La parola è sempre all'avv. Taddei il quale ha ancora molte cose da dire, molte precisazioni da fare, molte accuse da demolire. E prima d’ogni altra cosa vuol ricordare un fatto che desta vivissimo interesse in tutti i presenti. Egli ha dichiarato che fu offerta dalla parte avversa, ufficialmente, una transazione. Fu rifiutata. Ma non per spirito combattivo.
Avv. Taddei: — Noi eravamo disposti a chiedere scusa a D'Onofrio, ma ad una sola condizione: che ci venissero restituiti i nostri fratelli che la Russia trattiene ancora come prigionieri. Ci si rispose che una cosa è il partito comunista e un’altra il governo sovietico.
Qualunque condanna avremmo scontato pur di raggiungere questo nostro scopo. Non ci è stato possibile. E allora, perché accettare la transazione che i legali di D'Onofrio erano venuti ad offrirci? Perché avremmo dovuto impedire che il popolo italiano sapesse la verità intorno a quello che successe nei campi di concentramento di Russia? Perché impedire che il popolo si facesse una idea precisa di quello che fu il calvario dei nostri prigionieri?
Avv. Taddei: — A noi sembra, lasciatemelo pur dire, che fin quando fra noi e la Russia rimarranno questi ostaggi, sia molto difficile vi possa essere una effettiva distensione psicologica. Non si cancella il fatto che a distanza di cinque anni dalla cessazione della guerra, alcuni ufficiali, colpevoli solo di essere rimasti sulle loro posizioni d'onore, vengano trattenuti ancora come prigionieri e se ne ignori la sorte. Ecco perché noi non accettammo la transazione propostaci.
Il posto del sen. D'Onofrio, nel pretorio, è vuoto. Neanche oggi egli ha voluto assistere all'udienza: novello Catilina egli non ha retta alla irruenta oratoria del suo giovane ma implacabile accusatore: il cumulo dei suoi nefandi delitti lo inchioda al banco delle sue tremende responsabilità, lo respinge ai margini della società civile. L'avv. Taddei si è soffermato a lungo ad analizzare le deposizioni dei venticinque testi a discarico. Sette di essi, ha osservato, hanno affermato di essere stati minacciati dal propagandista comunista durante gli interrogatori subiti; dieci hanno raccolto le dichiarazioni del cap. Magnani di ritorno dal campo di punizione di Elabuga, dove (tutti sono stati concordi nell’affermarlo) era stato inviato insieme al ten. Ioli e ad altri ufficiali, per interessamento di D'Onofrio.
Avv. Taddei: — È riuscita la parte civile a smantellare le accuse formulate dai reduci? Certamente no. Anzi dagli stessi testi d’accusa sono stati ammessi gli interrogatori estenuanti cui i prigionieri venivano sottoposti. E una volta provate le accuse, che cosa interessa se il magg. Orloff era o no ufficiale della polizia di Stato? Egli era un ufficiale dell’armata sovietica, e, in questa sua veste, doveva necessariamente riferire ai propri superiori intorno agli interrogatori cui presenziava.
Dopo aver confutata ad una ad una le obiezioni mosse da D'Onofrio, l'avv. Taddei ha rievocato la tragica ritirata.
Avv. Taddei: — Voi, emigrati politici, cercavate di imporre le vostre idee a questi giovani stremati dalle fatiche e dalla fame, minati dalla salute e affranti dal dolore. Voi, per creare l’antifascismo, avete ucciso gli italiani. Ma noi rimaniamo ostinatamente italiani, disperatamente italiani.
Molti titoli si sono dati a questo processo: lo si è chiamato dei reduci, come se si potesse fare il processo ai nostri valorosi soldati; lo si è chiamato D'Onofrio. Ma se proprio un titolo gli si vuoi dare, ebbene questo è il processo dell’Italia contro gli antiitaliani.
L'avv. Taddei si avvia ormai verso la conclusione della sua arringa, ma prima di chiudere il suo dire vuol ricordare ancora il tentativo di violazione di coscienza fatto dal D'Onofrio nei confronti di Don Enelio Franzoni, quando pretese che il cappellano gli rivelasse i più intimi pensieri dei prigionieri che si confidavano a lui nel segreto della confessione. Di questo e dell’aver spedito il cap. Magnani, il ten. Ioli e altri in un campo di punizione, il D'Onofrio si faceva vanto.
Avv. Taddei: — Innumerevoli offerte giunsero da ogni parte d'Italia, quando si seppe che i reduci avevano necessità assoluta di fondi per poter sostenere il processo che contro di loro aveva intentato il senatore comunista e molte di queste offerte furono accompagnate da lettere di spose, di madri di caduti. Ve ne leggo una per tutte, signori del Tribunale: «Cari ragazzi, vi manda 204 lire una madre che solo per voi può ancora parlare di Patria ai propri figli».
Con queste parole il difensore dei reduci ha concluso la sua arringa.
Avv. Taddei: — Signor Presidente, sotto questa toga lei deve vedere anche il grigioverde, come il grigioverde deve vedere sotto le giacche di civili dei miei ragazzi, i quali, stampando l’opuscolo da cui ha tratto le mosse la causa, non vollero diffamare, ma soltanto compiere il loro ultimo dovere di soldati verso la Patria. Il loro non era un opuscolo di propaganda di partito, era un grido che erompeva dai loro petti, che sgorgava dai loro cuori. Costoro sono i martiri che vengono qui con un dovere: raccontare quello che hanno visto, raccontare meno di quanto hanno sofferto. Non sono dei venduti, i miei ragazzi, sono dei giovani tornati in Patria dopo tanti patimenti col cuore in tumulto, ma riboccante d’amore per il loro Paese.
Signori del Tribunale, è l’onore di questo glorioso grigioverde che io ho difeso.
Alle ultime parole dell’avv. Taddei fa seguito uno straziante singhiozzo e un tonfo sordo nell’aula. Una signora, la madre di uno che non ha fatto ritorno dalla Russia e che dal giorno che ebbe inizio questo processo ne ha seguito pazientemente le fasi, nella speranza di avere una qualche notizia del figlio scomparso, non ha più retto alla tensione di spirito e con un lungo lamento è caduta a terra svenuta. Alcuni carabinieri accorsi immediatamente la sollevano e la portano fuori dall’aula. Soltanto i difensori comunisti possono assistere alla scena con freddo cinismo: gli uomini di Mosca non hanno ormai più nulla di umano nello sguardo e nel cuore.
L’abbraccio fraterno dei suoi patrocinati è stato il miglior premio che Rinaldo Taddei abbia avuto della sua fatica. Gli imputati, appena il loro difensore ha finito di parlare, si sono alzati dal loro banco e sono corsi da lui con le lacrime agli occhi a ringraziarlo per aver saputo dare l'interpretazione più giusta e più vera dei loro pensieri, dei loro dolori. Madri, spose, sorelle, numerosi reduci che avevano assistito al processo fin dalle prime battute, hanno voluto unire il loro all'abbraccio degli imputati e così Taddei si è allontanato dall’aula stretto e circondato da una massa di amici che volevano esprimergli i loro sentimenti di gratitudine e di ammirazione.