11 luglio 1949. - Senza retorica, con oratoria stringata, con efficace dialettica il sostituto procuratore Dott. Manca, ha dimostrato, in tre ore, al Tribunale la infondatezza delle accuse di diffamazione mosse dal sen. Edoardo D'Onofrio agli imputati.
Il P. M. ha tratto gli argomenti principali e maggiormente persuasivi della propria requisitoria, dalle disposizioni contenute nel Codice Penale Sovietico, dalle istruzioni dettate da un U.K.S. del Praesidium del Soviet Supremo, firmato dal Presidente Kalinin, pubblicato nel numero della «Pravda» del 17 luglio 1942.
P. M.: — Illustre signor Presidente e signori del Tribunale, le due parti: il sen. D'Onofrio e gli imputati, i testimoni d'accusa e di difesa non si sono mantenuti nei binari del processo ma hanno spesso sconfinato in altri campi che possono avere il loro interesse dal punto di vista storico, politico e militare, ma che ne hanno poco dal punto di vista della causa. L’esame che voi dovete fare è un esame, in definitiva, ristretto.
Le accuse che i reduci dalla Russia hanno rivolto a D'Onofrio prendono le mosse da uno scritto in cui si definisce quello che è oggi il senatore comunista: «rinnegato ed aguzzino degli ottantamila prigionieri italiani». D'Onofrio respinge tale accusa affermando fra l’altro che non di ottantamila prigionieri si doveva parlare ma solo di quindicimila. Questa affermazione, però, gli viene contestata non solo dagli imputati, ma dagli stessi suoi testimoni e dalla raccolta di quel settimanale «L’Alba» che si pubblicava nei campi di concentramento. Infatti si è potuto stabilire, in tal modo, che i prigionieri italiani ammontavano ad una cifra oscillante fra gli ottanta e gli ottantatremila. Ed è lo stesso Togliatti che conforta tale affermazione quando asserisce — come si può leggere nei discorsi da lui tenuti ai microfoni di Radio Mosca dal 1941 al 1944 — che nel solo mese di gennaio del 1943 quarantamila furono i soldati dell'ARMIR che caddero in mano russa. Ad essi si devono aggiungere quelli fatti prigionieri in precedenza, per cui in totale risulta appunto una cifra che si aggira sugli ottantamila uomini.
P. M.: — Occorre ora vedere se gli articoli pubblicati nel numero unico «Russia» costituiscono reato di diffamazione.
L’altro corpo del dilemma è: In caso affermativo, ha D’Onofrio commesso i fatti addebitatigli? Tutti i fatti che costituiscono materia delle accuse mosse dagli imputati debbono essere provati perché se un solo dubbio rimanesse, questo andrebbe a tutto favore del querelante. Comunque, per quanto riguarda il primo dei due quesiti, non c'è dubbio nella risposta: gli articoli incriminati sono diffamatori, non solo, ma tali da imprimere «un marchio di fuoco e di sangue» su qualunque cittadino li abbia commessi.
Non voglio indagare sulle ragioni del «tragico calvario» dei nostri prigionieri perché ciò esorbita dai limiti della causa. A noi interessa sapere che essi furono oppressi da un complesso tanto grave di circostanze che per molto tempo la loro stessa costituzione fisica ebbe a soffrirne. Tanto che lo stesso Stalin, preoccupato dall'indice di mortalità raggiunto nei campi di concentramento dove erano raccolti i prigionieri italiani, sarebbe intervenuto perché fosse usato un trattamento migliore agli internati. Su questo argomento a me sembra che tutti si siano trovati d’accordo e lo stesso querelante ha ammesso che i morti raggiungevano delle cifre enormi.
Proprio in questo periodo D'Onofrio compare per la prima volta nei campi di concentramento.
Ed eccoci alle accuse. Il dott. Manca ricorda che il querelante ha recisamente negato di aver mai usato violenze o pronunciato o messo in atto minacce che avrebbero avuto un effetto assolutamente contrario a quello che la sua propaganda si riproponeva. Ma attraverso innumerevoli testimonianze, che sono venute a confermare le accuse degli imputati, attraverso la descrizione di circostanze specifiche, che lo stesso D'Onofrio non ha potuto smentire, attraverso l'indicazione di nomi, di luoghi, di date, di episodi, attraverso le documentazioni presentate, è stato raggiunto un complesso di elementi che non si può esitare a definire «poderoso».
P. M.: — Ora c’è da chiedersi: dicono la verità i reduci dalla Russia oppure ci troviamo di fronte ad una montatura organizzata da un regista pieno di fervida immaginazione, di fronte ad un complotto spettacoloso?
Questo dubbio voi lo dovete sciogliere, come attraverso un travaglio spirituale io l'ho già sciolto. Io credo a D'Onofrio quando afferma di aver comprato in Russia, al mercato nero, medicine per un prigioniero malato. Ma non posso credergli quando afferma che i gruppi antifascisti avevano un carattere democratico e che le cariche erano elettive. Non gli credo perché le sue affermazioni sono smentite dallo stesso settimanale «L’Alba» nel quale sta la prova che i gruppi antifascisti non erano affatto democratici, nel senso da noi dato alla parola. Essi facevano soltanto «del marxismo e del comunismo». Quindi non è vera neppure l'affermazione che «L'Alba» fosse «una palestra aperta a tutte le idee». Vi abbondavano invece scritti di intonazione antidemocristiana, contro il Vaticano e contro il Pontefice. Non troviamo in tutta la collezione del settimanale un articolo di ispirazione liberale, mentre al contrario vi si legge uno scritto di Togliatti dal titolo «Le merci avariate di Benedetto Croce».
P. M.: — Come era possibile allora che ufficiali, uomini di una certa cultura, con un loro patrimonio di idee, potessero liberamente esporre i loro convincimenti? C'è invece da immaginare il dramma psicologico di questi prigionieri i quali dovevano guardarsi intorno, nei campi di concentramento, per evitare che qualcuno andasse a riferire i discorsi che facevano agli istruttori politici. Un fatto è certo: con l’arrivo dei commissari politici finì la concordia e l’affratellamento, cominciarono le delazioni.
Ma la loro opera non fu soddisfacente e non raggiunse gli scopi se, come avvenne nel campo di Oranki, il commissario Fiammenghi, riuscì a convincere non più di venticinque ufficiali a firmare il famoso appello con cui si incitava il popolo italiano a non proseguire la guerra. Ecco allora arrivare D'Onofrio, il quale poté infrangere la resistenza dei prigionieri soltanto ricorrendo alle minacce. E a farne fede sta la tragica odissea del cap. Magnani di cui troppi testi hanno parlato, e tutti negli stessi termini, per poter pensare che sia da mettere in dubbio.
P. M.: — Che le minacce vi siano state s’è potuto ormai stabilire attraverso tutte le testimonianze. D'Onofrio oppone che egli si limitò solo ad avvertire gli interrogati che con le loro idee si sarebbero trovati male al rientro in Patria. Ma la sua obbiezione è giustificata solo nel caso che il prigioniero avesse espresso le proprie idee. Che cosa risponde D'Onofrio quando gli si fa osservare che il ten. Sandali si sentì rivolgere delle minacce perché non aveva mai risposto alle domande che gli venivano fatte? E che cosa dice quando gli si contesta che il ten. Santoro si sentì gridare nelle orecchie: «la differenza che c è tra lei e i suoi bersaglieri è che lei è un criminale di guerra vivo mentre i suoi bersaglieri sono dei criminali di guerra morti»? La risposta potrebbe essere una sola e cioè che sembra compiacersi, il sen. D'Onofrio, di queste affermazioni se in polemica con il «Risorgimento Liberale» definì i bersaglieri «fascisti, ladri e rapinatori».
Codice sovietico alla mano, il P. M. ha poi confutato l'affermazione fatta da D'Onofrio che in Russia esiste libertà di coscienza (art. 124 del codice stesso) dimenticando però di aggiungere, in materia di tolleranza religiosa, che l'art. 126 del codice penale sovietico punisce con lavori correttivi fino a tre mesi e 300 rubli di multa chiunque celebri riti religiosi in pubblico.
Quindi se in qualche campo fa celebrata, qualche volta la messa fu in deroga alle disposizioni del codice sovietico.
P. M.: — D'Onofrio ha sostenuto ancora che gli sarebbe stato impossibile minacciare l'invio in Siberia perché il piano quinquennale sovietico è riuscito a trasformare quella desolata regione in una specie di Eden, però ha tralasciato di dire che secondo l'art. 58 del codice penale sovietico chiunque favorisca l’espatrio clandestino di un proprio congiunto viene deportato ancora oggi per cinque anni nelle «lontane isolate regioni della Siberia». Dal che è facile dedurre che se la Siberia è terra di deportazione non può essere una sorta di luogo di villeggiatura.
Quale era la posizione in cui si trovava D'Onofrio in Russia? Il dott. Manca ha profondamente esaminato questo punto arrivando alla conclusione che era logico e, in un certo senso, necessario che il querelante agisse come agì.
P. M.: — Infatti studiando la causa feci delle ricerche sulle attribuzioni dei commissari politici e scoprii nel numero del 17 luglio 1941 della «Pravda» un Ukase firmato da Kalinin con il quale venivano precisate le mansioni dei commissari politici, qualificati come «diretti rappresentanti del partito e del governo», obbligati a denunciare «comandanti o lavoratori politici che si fossero resi indegni del loro posto» La disposizione emanata dal consiglio del Soviet Supremo diceva poi che i commissari politici coordinavano la loro attività con quella della polizia, e che i commissari politici erano funzionari russi. D'Onofrio, dunque, come commissario politico era funzionario sovietico e di conseguenza non avrebbe potuto comportarsi in modo diverso da come si è comportato a meno di incorrere nelle sanzioni penali previste. Egli inoltre per la levatura intellettuale, aveva delle funzioni ispettive ed era considerato come un capo. Gli italiani non si rendevano conto di trovarsi di fronte non ad un loro compatriota ma ad un «cittadino sovietico».
P. M.: — E cittadino sovietico era da considerare il querelante anche per l’art. 8 della legge italiana sulla cittadinanza per cui colui che, cittadino italiano, abbia ottenuto e mantenga un ufficio presso uno Stato estero, perde la cittadinanza.
Avv. Paone: — E quelli che parlavano dai microfoni delle radio estere ed ora sono al governo?
P. M.: — Io sto facendo il processo dal punto di vista giuridico e non politico!
Avv. Paone: — Si ricordi che lei è un Procuratore della Repubblica!
P. M.: — Non raccolgo questo insulto. Io faccio, qui, il mio dovere. Quanto alle parole «rinnegato e aguzzino» esse, che potrebbero far pensare ad una ingiuria, non rappresentano altro che una forma di ritorsione legittima dopo che il D'Onofrio, l’8 aprile del 1948, aveva scritto su «Risorgimento Liberale» che i soldati italiani erano dei «fascisti entrati in terra di Russia come dei ladri e dei rapinatori».
P. M.: — In sostanza le accuse che i reduci hanno mosso contro D'Onofrio non riguardano la sua attività di antifascista in genere, ma specificamente il suo comportamento nei riguardi dei prigionieri, comportamento che «riveste gli estremi di reato».
Noi non facciamo il processo all'antifascismo. Noi non neghiamo che tra gli antifascisti vi siano delle figure che sono dei simboli come Giuseppe Donati, i fratelli Rosselli, Giovanni Amendola, morti in terra francese per una idea. Antifascisti siedono onoratamente sui banchi del parlamento e al governo.
P. M.: — Noi, voi signori giudici, dobbiamo giudicare solo una cosa: se sono veri i fatti attribuiti a D'Onofrio. E, giacché mi si costringe a dirlo dichiaro:
I fatti attribuiti al sen. D'Onofrio sono contrari alla morale e alla politica di qualunque tempo e di qualunque partito. Poiché essi sono stati pienamente provati, in perfetta coscienza e con piena convinzione, io vi chiedo l’assoluzione degli imputati per aver raggiunto la prova dei fatti motivo della querela.