14 giugno 1949 - Gabriele Alfieri, il quale, a causa dell’incidente scoppiato all’udienza precedente, non aveva potuto concludere la sua deposizione, è tornato stamane alla pedana dei testimoni per spiegare ancora qualche particolare cui finora non si era accennato. Interessante è stato quello che il teste ha detto a proposito del giornale murale che si pubblicava nei campi di concentramento.
Avv. Taddei: — Che cosa era il giornale murale?
Alfieri: — Non era altro che una specie di copia del settimanale «L'Alba» o per lo meno era compilato sulla falsariga di quello che a sua volta si ispirava apertamente alla stampa sovietica. La caratteristica essenziale di quei fogli murali era quella di additare al disprezzo di tutti i prigionieri quegli ufficiali i quali nutrivano sentimenti fascisti, nonché di mettere in rilievo l'organizzazione interna sovietica in rapporto a quella italiana — naturalmente vista dall'angolo visuale degli scriventi — che così ne risultava sempre denigrata. Ricordo di aver letto su uno di quei fogli un articolo intitolato «Carogne» a firma del maggiore Sorbara, al quale da quel giorno venne attribuito, dal disprezzo dei compagni di prigionia, quello stesso appellativo. Un altro articolo, dovuto alla penna del tenente Beraudi, era diretto contro il tenente Stagno, ex consigliere nazionale, il quale in conseguenza di quella pubblicazione, dopo essere stato interrogato a lungo dal commissario Rizzoli fu trasferito in un campo di punizione e non ha fatto più ritorno dalla Russia.
Alfieri: — Su quel giornale murale ebbi occasione di leggere cose di una assurdità addirittura incredibile. Ad esempio vi si scriveva che un «fritz» (cioè un tedesco) valeva almeno dieci bersaglieri italiani; che agli italiani si metteva la museruola per impedire che rubassero l'uva; e che il Papa aveva fatto cardinale Guglielmo Marconi!
Avv. Sotgiu: — Le risulta che il tenente Stagno scrisse articoli per il giornale murale?
Alfieri: — Sì, uno, su questioni sindacali. Mi pare sugli uffici di collocamento.
Avv. Taddei: — Da dove venne attinta la notizia pubblicata sul numero unico «Russia», in cui si diceva che furono presi 80 mila prigionieri italiani?
Alfieri: — Esattamente dal primo numero del settimanale «L'Alba», uscito nel febbraio del 1943. In esso si diceva appunto che erano stati catturati 50 mila prigionieri italiani, appartenenti al 2° e al 35° corpo d’armata e 33 mila appartenenti al corpo d’armata alpino.
Il teste poi, a richiesta dell’avv. Taddei, è tornato sull'argomento che determinò l'alterco del giorno precedente, cioè in quali circostanze furono aggrediti e picchiati, all’atto del rientro in Patria, alcuni degli ufficiali.
Alfieri: — Non è vero che vennero picchiati quegli ufficiali che avevano fatto parte dei gruppi antifascisti. Per esempio i tenenti Bizzocchi, Zami, Bancalari, Zan, Aimone Marsan ed altri non subirono alcuna violenza eppure avevano aderito a quei gruppi. Lo furono soltanto coloro che avevano fatto i delatori nei campi di concentramento.
Tornano alla ribalta i testi d’accusa. I primi tre di questo secondo gruppo, ascoltati nel corso della udienza non hanno portato alcun elemento nuovo di giudizio. Essi hanno ripetuto in sostanza quello che già ci avevano raccontato i primi dieci favorevoli all'attuale querelante: hanno confermato che dopotutto nei campi di concentramento non si viveva male; che i viveri erano sufficienti; che i fuorusciti fecero del loro meglio per alleviare i disagi e le sofferenze dei prigionieri.
Il primo a presentarsi è stato il cap. Giuseppe Manzi, il quale ha voluto spiegare al Tribunale perché il cap. Magnani, il ten. Ioli ed altri ufficiali prigionieri furono mandati nel campo di Elabuga. Secondo il racconto del teste, il quale, peraltro si è affrettato a mitigare la sua versione dei fatti dicendo che riferisce soltanto congetture che si fecero a quel tempo fra i prigionieri e quindi sfornite di qualsiasi valore probatorio, il provvedimento sarebbe stato preso perché, giunto nel campo un asso della aviazione nazista, intorno a costui si sarebbe formalo un complotto al quale quegli ufficiali avrebbero preso parte.
Manzi: — Durante i trasferimenti non è che l'acqua mancasse, ma il fatto è che quella che veniva distribuita, contesa dai più ingordi, finiva sempre per spargersi sul fondo del vagone.
Anche il cap. Manzi ebbe il tifo petecchiale e fu ricoverato nel lazzaretto di Oranki dove il commissario Fiammenghi si prodigava per venire incontro ed esaudire tutti i desideri che venivano espressi dai degenti.
Manzi: — Io stesso chiesi di essere trasportato al campo di Skit per essere confessato da Don Franzoni. Fiammenghi mi accompagnò personalmente dal sacerdote. Non mi risulta che ufficiali prigionieri si siano mai lamentati di pressioni morali o di minacce da parte di D'Onofrio; e quanto alla scuola antifascista, alla quale io aderii spontaneamente, non vi venivano impartite che lezioni di storia e geografia economica dell'Italia, del movimento operaio italiano e qualche elemento della organizzazione interna sovietica. Gli allievi con il giuramento che prestavano alla fine del corso si impegnavano «a non ricadere negli stessi errori ed aberrazioni commessi dal fascismo». Conobbi il D'Onofrio ma non fui mai da lui interrogato e scrissi molte lettere e cartoline ai miei familiari delle quali una sola giunse a destinazione: quella consegnata alla signora Torre
È ora il turno del sergente Angelo Santarziero il quale non sembra fosse troppo entusiasta dell’idea di far la conoscenza dei campi di concentramento, tanto che, subito dopo la cattura, caricato su un vagone merci insieme ad altri 89 prigionieri, si gettò dal treno in corsa, ma presto le guardie russe lo riacciuffarono. Ma poi la vita in prigionia gli fu resa meno dura, strano caso, dalla presenza dei fuorusciti italiani. Si trovava a Susdal quando nel 1944 si sparse la voce che in Italia era stato proibito il saluto fascista, ma molti ufficiali continuavano a salutare romanamente con ostentazione.
Alcuni salutavano a quel modo anche il magg. Orloff e sorridevano.
Avv. Taddei (ironico): — Allora non facevano il saluto romano, ma il sorriso romano...
Il terzo teste d’accusa è il soldato Michele Minici il quale fu catturato mentre era ricoverato per ferite riportate in combattimento, nell’ospedale di Kantemirowka.
Avv. Taddei: — In quell'ospedale fu fucilato il cappellano al momento della resa. Ricorda il teste, per quale ragione?
Minici: — Il cappellano organizzò una azione di resistenza ai russi insieme ad alcuni soldati della sanità che prestavano servizio nell'ospedale. I Russi allora spararono delle cannonate che fecero crollare una parte dell’edificio. Alcuni ricoverati morirono sotto le macerie. Il cappellano fu passato per le armi appunto per aver organizzato quella resistenza.
Avv. Taddei: — Ma via... E con che cosa potevano organizzare la resistenza i soldati di sanità? Tutti sanno che essi sono disarmati.
Il teste fu trasportato nei pressi di Stalingrado, in una zona dal clima freddissimo; ma da lì, per il personale interessamento di Togliatti, lo trasferirono in un campo molto attrezzato ad Usbeghistan, un posto dal clima ideale, dove trovò anche dei fuorusciti italiani che si interessarono molto dei prigionieri, organizzarono una scuola per analfabeti e formarono persino una squadra di calcio.
L'ultimo teste della giornata, Pietro Giuffrida, non ha fatto che ripetere circostanze già note, dilungandosi soprattutto sulla gentilezza e sull’interessamento dei fuorusciti italiani dei quali conobbe personalmente Buzzi, Rizzoli, Versari e Fiammenghi.