18 giugno 1949 - Una lettera — che ha costituito un piccolo colpo di scena — è la deposizione di un altro cappellano militare, Padre Turla, sono stati i fatti che hanno caratterizzato questa udienza, e devono avere contrariato non poco il sen. D'Onofrio.
Si è presentato per primo il tenente dei bersaglieri Umberto Puce,
Puce: — La mia prima destinazione, come prigioniero di guerra, fu un bosco nei pressi di Minciulinskin: «il bosco della morte», come lo chiamarono subito i prigionieri. Qui gli italiani furono sistemati in alcune buche seminterrate, senza porta e malamente coperte; non c'era paglia per terra e il cibo era costituito da una zuppa di brodaglia con dentro nove chicchi, contati, di lenticchia, pane nero immangiabile e per bevanda un liquido indefinibile. Arrivammo nel bosco in settemila, ripartimmo tre mesi dopo che eravamo ridotti in cinquecento. Ma già prima di giungere nel bosco i prigionieri erano stati decimati per la lunga marcia, per la debolezza, per la spietatezza delle guardie russe di scorta alle colonne. Il teste ha raccontato che per impadronirsi delle tute mimetiche che due soldati indossavano, quei disgraziati furono fatti uscire dalle file e fucilati; quelli che per una ragione qualsiasi non riuscivano a tenersi nella colonna venivano passati per le armi; abbattuto con due colpi di pistola alla nuca fu un poveretto, che, durante il viaggio in treno, sfondato un finestrino, si era gettato dal convoglio sulla neve per placare la sete.
Al campo di Viliba la situazione subì un leggero miglioramento: c'era acqua in abbondanza e si mangiava un po’ meglio, ma il tifo petecchiale e le altre epidemie continuarono a mietere vittime. Dei 500 arrivati ripartimmo, dopo meno di due mesi, in 300. Nuova destinazione, il campo di Baskaia e poi Susdal.
Puce: — Qui conobbi il fuoruscito Roncato il quale vestiva la uniforme russa. Egli profferì volgari insulti contro i prigionieri italiani, vantandosi di aver combattuto sul Don contro le nostre truppe. «Non lo sapevate che avreste fatto questa fine, quando veniste a combattere contro i russi? — disse — dovevate ribellarvi prima!». E quando gli dissi che ero volontario di guerra, mi schernì e additandomi ad un ufficiale russo esclamò ridendo: «Eccolo, il conquistatore».
Seppi poi da alcuni colleghi che venivano dal campo di Oranki che laggiù la vita era durissima e che il trasferimento di lì in un campo di punizione del cap. Magnani e di altri ufficiali italiani era da attribuirsi a D'Onofrio. All'ufficio politico del campo mi fu proposto di riferire sull'atteggiamento e sulle idee politiche dei colleghi e quando si accorsero che le informazioni da me fornite non corrispondevano ad altre che i russi avevano e che anzi mettevano in ottima luce proprio coloro che erano stati segnalati alla polizia sovietica, mi minacciarono puntandomi alle tempie le pistole. Mi fu proposto pure di spedire dei messaggi radio ai familiari, ma opposi un netto rifiuto, perché si pretendeva che si sottolineasse nel testo come la prigionia in Russia fosse un paradiso, mentre ci sfamavamo con le ortiche.
Padre Turla non ha esitato ad attaccare direttamente il querelante del quale fece la conoscenza poco prima del 25 luglio 1943. Lo conobbe al convalescenziario di Skit dove era stato ricoverato una volta guarito da una violenta forma di tifo petecchiale e da una otite purulenta, malattie che lo avevano ridotto al peso di 35 chili e gli avevano lasciato una amnesia tale che fino alla fine del 1944 non ricordava neppure il nome della madre.
Ed ecco il colloquio avvenuto fra il cappellano e D'Onofrio:
P. Turla: — L'attuale querelante mi parlò prima di politica e poi mi presentò il famoso appello al popolo italiano, istigandomi ad entrare a far parte del gruppo degli attivisti.
«Sono un sacerdote e come tale non posso appartenere a gruppi politici», risposi.
D'Onofrio interruppe: «Allora lei è un fascista!» Ribattei che io non mi ero mai interessato di cose politiche. Avevo appena dodici anni quando ero entrato in seminario...».
D'Onofrio disse ancora: «Lei sta male ed ha bisogno di cure, di mangiare bene per rimettersi e soprattutto ha bisogno di tornarsene a casa sua. Lei firmi qui su questo foglio e vedrà che noi lo aiuteremo». Poi si allontanò non senza aver ancora insistito a lungo. Ma il giorno successivo tornò alla carica. «Beh, ci ha pensato bene? Pensi, le ripeto, che con una firma a questo foglio e con la sua adesione al gruppo antifascista lei starà molto meglio. Il gruppo antifascista ha discreti vantaggi: lei avrà più libertà, perché quello è un gruppo ricreativo ed anche di cultura». Al mio rifiuto D'Onofrio assicurò: «Se ne pentirà! lo riferirò alle autorità sovietiche. Si ricordi bene che lei è un prete e non è detto che i russi abbiano intenzione di continuare per un pezzo a rispettare il suo saio».
Le conseguenze di questo drammatico colloquio non tardarono a farsi sentire e che il D'Onofrio avesse messo in atto la minaccia non c'è dubbio se appena dopo due giorni fui dimesso dal convalescenziario e rispedito al campo, sebbene fossi ancora malato. Fui rimesso a vitto comune e per non morire dovetti cibarmi di ghiande e di cicoria che trovavo nei campi.
Ma Padre Turla non si è limitato a parlare dei suoi rapporti con l'attuale querelante. Ha voluto anche raccontare al Tribunale come si vivesse nei campi di concentramento.
P. Turla: — Gli italiani non dimenticheranno mai il nome terribile di Krinovaia ed ha aggiunto che in quel campo 27 mila prigionieri italiani morirono di fame e di fatiche. Tanta era la disperazione che per tre volte di seguito chiedemmo alle autorità militari sovietiche di essere fucilati. Non voglio scendere in particolari per non dare altri dolori a tante mamme d'Italia, ma non posso non confermare gli episodi di cannibalismo, le scene sanguinarie che si ripetevano giorno per giorno, gli stenti delle lunghe marce di trasferimento.
Avv. Taddei: — È vero che nei campi si poteva celebrare la Messa e che fu perfino organizzato un Presepe nella ricorrenza del Natale?
P. Turla: — Per quanto mi riguarda, ho potuto celebrare la Messa soltanto una volta, durante tutta la prigionia. Fu nel campo di Susdal il 1° gennaio del 1944. Il Presepe, poi, è vero, fu fatto, ma dovemmo fare una domanda al comando russo mascherandolo sotto la definizione di «mostra artistica». È vero anche che i sovietici vennero a visitare il Presepe. Essi si rallegrarono con noi e, indicando il panorama nel quale si vedevano palmizi, capanne e grotte, ci chiesero se raffigurava Roma.
A questo punto, esaurita la deposizione di Padre Turla — che già aveva notevolmente turbato il querelante — c'è stato il colpo di scena.
L'avv. Taddei ha tirato fuori una lettera scritta da uno dei testi d’accusa, precisamente Alessandro D'Alessandro, il quale si era dilungato in una precedente udienza, nell’esaltazione del regime sovietico, dell’ottimo trattamento usato ai prigionieri, e non aveva lesinato i ringraziamenti a tutti i fuorusciti italiani che gli «avevano aperto gli occhi».
La lettera in questione fu spedita dal fronte russo il 25 ottobre del 1942, un anno prima di essere catturato, e indirizzata ad una zia residente a Rocca di Papa, nei pressi di Roma. Nello scritto il D’Alessandro si scagliava contro il regime sovietico e l'organizzazione interna della Russia esprimendosi in questi precisi termini: «Ho parlato ai mugiki della zona nella quale siamo fortificati. Le deplorevolissime condizioni fisiche e morali in cui abbiamo trovato quelle popolazioni dimostrano chiaramente che il paradiso sovietico non è quello che la propaganda di Mosca vuol far credere». E non sono impressioni personali, vuol precisare lo scrivente, perché, insiste, si tratta di confidenze fattegli da qualche vecchio mugik. E ancora: «Solo una cosa i contadini russi conoscono, e molto bene: il commissario politico e la sua frusta». E più oltre: «Quale è il premio della loro fatica? Nulla. I contadini ricevono, alla fine della giornata, mezzo chilo di pane e nient’altro. Se protestano, il crepitio dei fucili si fa sentire senza pietà». Per concludere poi: «il popolo russo ha conosciuto il suo calvario».
La lettura della lettera è stato un po’ come un fulmine a ciel sereno: gli avvocati hanno cominciato a guardarsi, pronti a dare il via al battibecco; D'Onofrio era visibilmente contrariato e il, D’Alessandro era addirittura violaceo, non sapeva più dove guardare quando è stato chiamato nuovamente alla pedana per riconoscere la lettera come sua, cosa della quale, naturalmente, non ha potuto fare a meno. Ma tutto si è risolto in un brevissimo scambio di botte e risposte fra le parti, cui ha dato inizio proprio il querelante.
D'Onofrio: — Io vorrei proprio sapere come ha fatto la difesa a venire in possesso di quella lettera.
Avv. Taddei (prontissimo): — L'ho avuta dalla posta, naturalmente.
Avv. Sotgiu: — Chiedo che venga citato come testimone la destinataria della lettera.
Avv. Taddei: — Non riesco a comprendere la ragione per cui vi agitate tanto. Del resto l’episodio non fa che confermare quanto efficace sia stata la propaganda del D'Onofrio, il quale ha trasformato, con un colpo di bacchetta magica, un denigratore della Russia in un attivista modello, come è oggi il D'Alessandro.
D'Alessandro: — Ma io allora credevo che quella fosse la realtà. Così infatti ci dicevano sempre i consoli della milizia che venivano per fare la propaganda. E del resto il capomanipolo Taddei può testimoniare... (il teste si dimentica di chiarire come mai possa oggi attribuire alla propaganda degli ufficiali della milizia quelle informazioni confidenziali avute, a quanto si dice nella lettera, da «qualche vecchio mugik della zona»).
Avv. Taddei: — Signor Presidente è già la seconda o la terza volta che i testi parlano di me in questo modo. Credo che sia il caso di intervenire energicamente...
Prima che l'udienza venga tolta il tribunale si riserva di decidere se citare o meno la signora Ester Bersaretti, destinatario della lettera, giacché, alla richiesta dell'avv. Sotgiu, si associano anche i difensori e il P. M.