20 giugno 1949 - Siamo ormai agli ultimi testimoni. Il giorno della sentenza si avvicina e l'interesse suscitato da questo processo, che dura già da un mese, è sempre vivissimo.
Ancora due testi a discarico e poi sarà la volta degli ultimi cinque addotti dalla Parte civile.
Il primo a deporre è stato il tenente di artiglieria Orazio Mangone della divisione «Pasubio» il quale ha fatto un lungo e particolareggiato racconto del viaggio dal luogo della cattura al primo campo di concentramento, quello di Tamboff. È stata la storia, già narrata dagli altri reduci, di patimenti, di fatiche, di minacce, di morte. Al campo di Tamboff i prigionieri furono accolti dalla signora Torre. Faceva molto freddo e gli uomini battevano i piedi in terra nel tentativo di scaldarsi o almeno di far circolare il sangue. Chiesero aiuto all’emigrata, ma questa rispose loro beffardamente «Avete battuto tanto le mani a Piazza Venezia, ora potete anche battere i piedi».
Il teste conobbe D'Onofrio al campo di Oranki e fu da lui interrogato all'indomani della presentazione dell’appello al popolo italiano. Poiché il Mangone rifiutò di sottoscrivere, l'attuale querelante gli disse: «Lei deve rivedere le sue idee se vuol tornare in Patria. Lei lo sa che in Siberia fa molto freddo?». «Sono un prigioniero — rispose l'ufficiale — e desidero seguitare a fare il prigioniero».
Presidente: — Quali furono le conseguenze del suo rifiuto?
Mangone: — Fui immediatamente dimesso dal convalescenziario e rispedito ad Oranki dove mi assegnarono al lavoro malgrado non pesassi 40 chili.
Fu ad Oranki che il cap. Magnani mi espresse le sue preoccupazioni per quello che lo aspettava dopo l'ostilità che aveva dimostrata nei riguardi del D'Onofrio. Come temeva, il capitano fu trasferito infatti in un campo di punizione.
Al campo di Susdal in ogni baracca c’era un ufficiale appartenente al gruppo antifascista il quale svolgeva propaganda politica. In proposito nella mia baracca questa funzione era espletata dal ten. Tommaso Barone, il quale rientrò in Italia due anni prima degli altri.
Del viaggio di ritorno, il teste ha raccontalo poi al tribunale le difficoltà incontrate. Partì dal campo nell’aprile del 1946 ma gli ufficiali superiori furono trattenuti e fra essi il gen. Ricagno. Il Mangone ed altri cinquanta colleghi, giunti in Romania, furono fermati prima alla frontiera austriaca, a Sighet. I russi dicevano che non era possibile farli partire per mancanza di vagoni e soltanto quando i prigionieri cominciarono lo sciopero della fame furono portati a Vienna e di lì rimpatriati per l'intervento della Croce Rossa Internazionale. Cosicché il loro rientro fu ritardato di oltre un mese.
È stata poi la volta del comandante dell’8° reggimento Alpini, col. Luigi Zacchi (Btg. Cividale. [Nota della Bibioteca persicetana]). Subì il primo interrogatorio, dopo la cattura, dal fuoruscito Vera a Rostov e poi, successivamente, ad Oranki parlò con Fiammenghi. Costui cercò di sapere quale fosse la sua idea politica e gli prospettò un ottimo avvenire in Italia qualora l'avesse mutata.
«Non mi sono mai interessato di politica — rispose il colonnello — e perciò non ho idee da cambiare».
«Si ricordi — lo ammonì allora Fiammenghi — che in Italia troverà il comunismo padrone della situazione. È bene che si regoli». «So perfettamente quale sia il mio dovere — ribatté il colonnello — e non ho paura». «Ma lei è sicuro di ritornare in Italia?» chiese allora il commissario. «Certamente. A meno che non vada all’altro mondo per una malattia».
Presidente: — Lei sentì mai parlare di una legione garibaldina?
Zacchi: — Sì. Questo gruppo fu formato dopo la dichiarazione di guerra alla Germania. Aveva lo scopo apparente di riunire tutti gli italiani, ma in effetti mirava a conoscere quali fossero le tendenze politiche dei prigionieri.
Presidente: — Il teste conobbe il cap. Magnani?
Zacchi: — Sì, era l'aiutante maggiore del mio reggimento.
Presidente: — E seppe dell’interrogatorio subito dal cap. Magnani?
Zacchi: — Sì. Egli mi riferì del colloquio avuto con il D’Onofrio il quale lo aveva minacciato di non farlo ritornare più in Italia. Era un ottimo ufficiale, il cap. Magnani. Quando lo consigliai a moderarsi e a restare tranquillo mi rispose: «Non m’importa niente. Preferisco non tornare ma lasciare a mia figlia un nome del quale non debba vergognarsi».
Avv. Taddei: — Perché avvenivano i trasferimenti in campo di punizione?
Zacchi: — Perché i prigionieri si opponevano alla propaganda comunista.
Avv. Taddei: — Le consta che ci sia stato qualche caso di spionaggio a Susdal?
Zacchi: — Molti erano quelli sospetti di spionaggio ma in genere tutti mantenevano l'incognito. Qualcuno però, come un certo Mario Pugnetti di Mestre. confermò apertamente di essere stato incaricato dal commissario del campo di riferire i discorsi che i compagni di baracca facevano quando si trovavano insieme. Costui si faceva chiamare Napir Suratovo e si spacciava per indiano e per ufficiale. Invece era un caporale.
Avv. Taddei: — Questo Pugnetti era iscritto al gruppo antifascista?
Zacchi: — Sì.
Avv. Taddei: — Lei sa se i commissari politici erano considerati alla stregua di funzionari sovietici?
Zacchi: — Ce lo disse ufficialmente il comandante russo del campo, il colonnello Krastin. «I commissari politici italiani — disse esattamente — sono dei funzionari sovietici e pertanto si deve loro obbedienza».
Avv. Sotgiu: — È vero che quando gli fu proposto di sottoscrivere un messaggio di plauso al Governo di Parri, lei si rifiutò e anzi per protesta si strappò le mostrine d’alpino?
Zacchi: — Fandonie! Non ho idea di chi abbia messo in giro una menzogna del genere. Io porto le mostrine d’alpino onoratamente dal 1915. E non mi sono mai sognato di togliermele!
Avv. Taddei: — Dato che lei era l'ufficiale più elevato in grado cosa può dirci degli attuali imputati che si trovavano nello stesso campo con lei?
Zacchi: — Erano ufficiali molto retti e di elevati sentimenti. Ho conosciuto molto bene gli attuali imputati nel periodo della prigionia.
Con il ten. Franco Bellofiore è poi cominciala la sfilata degli ultimi cinque testimoni d'accusa. Egli ha affermato che a Tamboff la razione viveri era abbondante, ma che i rumeni che dominavano nelle cucine facevano «camorra» e perciò il più delle volte il rancio arrivava dimezzato. I fuorusciti si comportarono bene con i prigionieri; i trasferimenti avvenivano in treno; coloro che lavoravano venivano compensati con supplementi viveri.
Avv. Taddei: — Lei ricorda di aver firmato un appello con il quale si invitavano i soldati a ribellarsi agli ufficiali?
Bellofiore: — Non mi sembra.
È stato poi chiesto al signor Bellofiore quanti furono i prigionieri che morirono durante la prigionia.
Bellofiore: — Ma io non facevo mica le statistiche...
La deposizione, che nulla di nuovo apporta ai già numerosi clementi di giudizio, sarebbe esaurita. Prima però che il teste venga congedato, è richiamato sulla pedana il ten. Mangone il quale su esplicita domanda della difesa dichiara che il Bellofiore era sospettato di denunciare ai sovietici coloro che preferivano non assistere alle conferenze politiche tenute dagli emigrati italiani. Ma si trattava soltanto di sospetti, seppure gravi. Forse per questo il Bellofiore non ha creduto opportuno reagire e l'udienza si è chiusa nella calma più assoluta.
Il vecchio adagio ammoniste: chi tace, conferma.