Dopo una settimana di sospensione, il processo è ripreso il 23 maggio 1949 con la deposizione dell’ultimo imputato, Ivo Emett, tenente degli alpini, caduto prigioniero il 27 gennaio 1943, nei pressi di Valuiki.
Dopo un viaggio estenuante a piedi, senza cibo né acqua, i prigionieri furono chiusi nel campo di Tamboff. Le condizioni fisiche di tutti erano terribili. Conferma i casi di cannibalismo. Un giorno arrivò una signora italiana: la signora Torre.
Emett: — Credevamo che fosse venuta in nostro aiuto e invece a qualcuno che le domandava un pezzo di pane chiese in compenso quei pochi gioielli, quella poca roba di valore che il prigioniero era riuscito a salvare.
Venti ufficiali italiani, fra i quali l'Emett stesso, furono trasferiti al campo di Oranki. Giunsero estenuati. Due medici italiani che si trovavano in quel campo, il prof. Ioli e il dott. Reginato, fecero miracoli per i malati. Usavano coltelli da cucina per gli interventi chirurgici ma come medicina, oltre al permanganato, non potevano dare che il loro conforto.
L'Emett appena dimesso dall'ospedale venne interrogato dal commissario Fiammenghi. Il colloquio fu dei più estenuanti. Si volle sapere il perché della sua presenza in Russia, del suo nome che tradiva l'origine inglese, della sua iscrizione al partito fascista o meglio al Guf, come tatti gli studenti delle università italiane.
Nel convalescenziario di Skit (uno scantinato dove gli ammalati, anziché guarire, peggioravano) l'Emett trovò che si era costituito un gruppo di ufficiali marxisti i quali ricevevano uno speciale trattamento di favore.
Emett: — Un giorno all'aperto vidi degli ufficiali che si riunivano. D'Onofrio rivolgeva loro la parola. Rimanendo sdraiato dove mi trovavo, a qualche metro dalla riunione, sentii che il «cospiratore» proponeva agli ufficiali di inviare un appello al governo Badoglio, per invitarlo a non continuare la guerra. Sentii il cap. Magnani rifiutarsi a nome di tutti di firmare, prospettando la inopportunità del proclama non soltanto dal punto di vista politico ma della disciplina militare. Quasi tutti i presenti applaudirono a lungo il capitano e allora il D'Onofrio ordinò che l’adunata fosse sciolta e che rimanessero soltanto quelli che facevano parte del cosiddetto gruppo antifascista, ossia comunista. Rimasero una quindicina.
D'Onofrio venne poi da me, qualche giorno dopo, in ospedale e mi chiese di firmare l'appello. Rifiutai. M'accusò di essere fascista (il solito ritornello!) e aggiunse che dovevo cambiare idea. Replicai che le mie non erano idee politiche. Ero un ufficiale e come tale non potevo e non dovevo interessarmi di politica. Il colloquio finì alla maniera di tutti gli altri: con le solite minacce di dimissioni dall’ospedale, il che per me, in tali condizioni di depressione fisica e psichica, significava morire.
Due ore è durata la deposizione del ten. Emett e con essa s'è chiuso questo primo capitolo della raccapricciante narrazione dei reduci.
Ha inizio la deposizione del sen. D'Onofrio.
Il querelante, confermata la querela e riservatosi di produrre il settimanale «L'Alba» stampato per i prigionieri di Russia, spiega al tribunale il perché della sua azione.
D'Onofrio: — Io ho ravvisato negli articoli offesa alla mia persona, come comunista e come italiano. Ciò perché ho sempre difeso gli interessi del mio paese: in Italia come in Russia.
Presidente: — È vero che lei procedeva ad interrogatori nel modo come hanno detto gli imputati?
D'Onofrio: — Non ho mai tentato di convincere altri alle mie idee usando imposizioni e minacce.
Il senatore comunista accennando alla polemica avuta nel febbraio 1948 con il giornale romano «Risorgimento Liberale» che pubblicò degli articoli contro la sua attività antitaliana in Russia, ha detto che in quell'occasione non si querelò, perché il direttore del giornale pubblicò regolarmente tutte le lettere di risposta, per cui la questione rimase negli stretti limiti della polemica politico giornalistica.
D'Onofrio: — Ma durante la campagna elettorale viene fuori quel libello (si riferisce al numero unico «Russia») nel quale ricorrono chiaramente gli estremi dell’oltraggio. L'accusa fattami, di violenze o minacce, è assolutamente falsa, in quanto non si possono infondere con quei mezzi idee politiche, ma soltanto con una assidua opera di persuasione. Il fatto è che al fondo di tutta questa storia c'è una ragione politica. Perciò sono lieto di poter esporre al Tribunale quegli episodi che, pur essendo ormai di dominio pubblico, vanno posti nella loro vera luce.
Dopo questa premessa il sen. D'Onofrio è entrato nel vivo della questione cominciando con l'affermare che la cifra di 80 mila prigionieri in Russia è esagerata. Dalle dichiarazioni degli stessi prigionieri essi sarebbero stati non più di 10 o 12 mila. Secondo studi effettuati dagli Stati Maggiori, l'Armir avrebbe perduto 84 mila uomini e in questa cifra vanno compresi naturalmente oltre quelli catturati dai russi, i morti e i feriti. Ora, giacché l'URSS ha restituito all’Italia 12 o 13 mila prigionieri, va da sé che la differenza che manca è data dal numero dei caduti.
La responsabilità di un cosi elevato numero di morti, secondo D'Onofrio, è tutta dei capi che non furono capaci di organizzare una resa che avrebbe salvato tante vite.
A questo punto il pubblico che fino ad allora aveva assistito silenziosamente e compostamente al dibattito, reagisce alle dichiarazioni del senatore con vivaci mormorii di disapprovazione, tanto che il Presidente è costretto ad intervenire per ristabilire il silenzio nell'aula. Ma prima che torni la calma, qualcuno, che non è possibile identificare, nella folla grida: «Allora non è morto nessuno nei campi di concentramento?».
Avv. Taddei: — Sicché la Russia avrebbe restituito all'Italia più uomini di quanti non ne avesse catturati!
Ma D'Onofrio non raccoglie l'insinuazione della difesa, e prosegue nella sua esposizione dei fatti, scagionando la Russia da ogni diretta responsabilità nelle morti dei soldati.
D'Onofrio: — Era inevitabile che i prigionieri fossero sottoposti ad una vita di grandi disagi specialmente quando venivano trasferiti. Le condizioni della Russia, causa la guerra, non consentivano viaggi agevoli. Quindi le sofferenze durante tali viaggi non possono essere attribuite a malevolenza da parte russa. Quanto ai casi di malattia e alle epidemie tra i prigionieri, si trattava di malattie di cui i prigionieri stessi erano già affetti prima ancora della cattura. Quanto alla mancanza dell'acqua era anche essa inevitabile, perché in certe zone l’acqua mancava completamente e la stessa popolazione civile ne era priva. Per tornare ai trasporti è vero che i trasferimenti venivano effettuati su carri bestiame ma quelli russi sono più grandi di quelli usati in Italia e nella parte centrale di essi era stata sistemata una stufa, cosicché i prigionieri potevano godere di un minimo di comfort.»
Questa ultima dichiarazione di D'Onofrio suscita un fragoroso scoppio di ilarità e il presidente è costretto per la seconda volta a richiamare il pubblico al silenzio.
Dalla deposizione del senatore comunista si apprende che le condizioni dei prigionieri andarono sempre più migliorando. Nel settembre del 1943 la razione di un ufficiale prigioniero, ad esempio, sarebbe stata così composta: 300 grammi di pane bianco; 300 grammi di pane nero; 10 grammi di farina; 100 grammi d'orzo; 200 grammi di pasta; 75 grammi di carne; 80 grammi di pesce; 40 grammi di burro; 40 grammi di zucchero; 10 grammi di olio; 10 grammi di frutta fresca; 400 grammi di patate; 190 grammi di verdure.
Nuova eccitazione fra i presenti, a stento frenata dal Presidente, quando la Russia viene additata come una nazione amica.
Costretto a fuggire dall’Italia per le persecuzioni fasciste, D'Onofrio passò prima in Francia e di lì in Spagna dove combatté nelle file antifranchiste. Nel 1939 accompagnò in Russia un gruppo di reduci dalla guerra di Spagna e quando stava già per tornare indietro fu sorpreso dallo scoppio del secondo conflitto mondiale. Rimase perciò in Russia.
D'Onofrio: — Ero convinto che la guerra voluta dai fascisti non dovesse continuare. Ma da ciò non si deve dedurre che io fossi un disfattista. Io ho sempre sostenuto l’urgenza di una uscita dell’Italia dal conflitto, prima che venisse la disfatta. Mi ripromettevo di elevare la coscienza democratica dei prigionieri attraverso una costante opera di persuasione e di convinzione: mi proponevo di unire tutti i nostri prigionieri su questa base politica.
Prima del 25 luglio 1943 tenni nel campo di Oranki e in quello di Skit due conferenze. E in ambedue le manifestazioni ricevetti le congratulazioni e l’applauso di tutti i presenti. Lo stesso cap. Magnani, nel campo di Skit, manifestò il suo entusiasmo dicendo che era la prima volta che in Russia sentiva parlare un vero italiano.
Parlai poi, tra i prigionieri, del settimanale «L'Alba» che doveva essere diffuso nei vari campi di concentramento e molti avanzarono proposte sul come tale giornale avrebbe dovuto essere fatto.
Gli aderenti ai gruppi antifascisti non avevano un trattamento migliore degli altri. L'adesione a tali gruppi era assolutamente volontaria e chi vi faceva parte era spinto da convinzione personale e non da tornaconto.
A questo punto il querelante fa presente al tribunale che dovrà parlare ancora per due ore almeno. Sono già le 13,30: l'esposizione dura ormai da quattro ore. Il Presidente decide allora di rinviare a domani la prosecuzione del dibattito.