Nessuna tregua, non un attimo di respiro, né la possibilità di prendere la minima iniziativa, ha dato il primo teste escusso oggi 28 maggio 1949, con la valanga di precise accuse che ha rovesciato sul capo del senatore D'Onofrio.
Don Enelio Franzoni, cappellano della Divisione «Pasubio», catturato nel dicembre del 1942, proposto per la medaglia d’oro sul campo, prima di cominciare la sua deposizione, ha guardato fisso negli occhi, con uno sguardo sicuro e leale, il querelante. E poi ha iniziato la narrazione dei numerosi interrogatori subiti da parte del Fiammenghi, del D'Onofrio e prima ancora dal Robotti che lo assillò con le solite domande sul perché fosse venuto a fare la guerra in Russia e sul perché mai l'esercito non si ribellasse, ricordandogli, a conclusione, la storia di Napoleone e della campagna di Russia: «In Russia si va, ma non si torna», commentò il fuoruscito.
Don Franzoni: — Fui fatto entrare in una stanza nel campo di Oranki, poco prima del 25 luglio 1943, dove trovai, insieme al D'Onofrio, Fiammenghi e il maggiore russo Orloff. Un soldato russo chiuse la porta alle mie spalle e rimase fuori di piantone.
D'Onofrio m'invitò prima a sedere, e poi volle sapere le mie generalità e dove avessi esercitato il ministero religioso in Italia. Risposi che ero insegnante al seminario di Bologna.
Presidente: — Scriveva qualche cosa il D'Onofrio, durante questo colloquio?
Don Franzoni: — Sì, prendeva degli appunti e il magg. Orloff faceva la stessa cosa.
Mi chiese poi quali fossero le mie idee politiche e malgrado rispondessi che, come sacerdote, non potevo avere idee politiche, insistette dicendo, fra l’altro, che oltre ad essere sacerdote ero anche cittadino. Ancora una volta replicai che un cappellano militare non può avere idee politiche, ma lui non si dette per inteso: voleva ad ogni costo che gli rispondessi. Ma visto che a quel modo non riusciva ad ottenere una risposta, tentò un’altra strada e cominciò a dirmi che, ovviamente, come cappellano dovevo almeno conoscere le idee degli altri ufficiali. Rimasi offeso da queste parole. D'Onofrio voleva abusare della mia qualità e servirsene per i suoi scopi. Mi guardai bene, perciò, dal rispondere ad una domanda tanto maligna e insinuante.
Ma non era ancora finito: l'interrogatorio si protrasse per altre due ore.
D'Onofrio cambiò argomento e mi parlò della Patria lontana e della famiglia. Mi chiese se desideravo rivedere la mia famiglia. Certo, aggiunse, se volevo rivederla era necessario che mi allineassi ai nuovi tempi. Nelle sue parole non stentai a riconoscere una aperta minaccia.
Un giorno, mentre ero ancora al campo di Tamboff, ebbi ordine dal comandante russo di scrivere una lettera al Papa, nella quale dovevo consigliarlo sull’andamento della guerra suggerendogli di cercare di por fine ad essa. Io scrissi a Sua Santità pregandola di aiutarci, ma non feci cenno alcuno al suggerimento che m'era stato dato dal comandante russo, il quale, dopo aver letto la lettera disse che non andava bene e me la fece riscrivere daccapo. In sostanza tornai a scrivere le stesse cose, ampliandole con giri di parole, ma non nel senso desiderato dall'ufficiale russo. Comunque, prima di consegnarla, la lessi agli ufficiali ed ebbi la loro approvazione.
È assolutamente falso che io nella lettera abbia esaltato la Unione Sovietica, come asserì il D'Onofrio all'epoca della polemica avuta con il «Risorgimento Liberale». Non avrei certamente potuto farlo mentre attorno a me, per fame e per freddo, morivano ad uno ad uno i miei uomini.
Il tenente degli Alpini Mario Braga dichiara che nel campo di Susdal incontrò il cap. Magnani, proveniente dal campo di Elabuga, il quale gli disse di essere stato informato dai sovietici stessi che si trovava in quel campo in seguito a segnalazione del signor D'Onofrio e del magg. Orloff.
L’affermazione del teste provoca un vivace scambio di frasi fra l'avv. Taddei e i due avvocati di parte civile i quali sostengono che il teste, in una sua precedente deposizione scritta, non aveva accennato alla circostanza ora citata e chiedono l'incriminazione del teste. Il quale, intervenendo nel battibecco, spiega che non accennò allora alla circostanza in questione perché temeva che, facendo il nome del cap. Magnani ancora prigioniero, potesse in qualche modo danneggiarlo. Siccome il Magnani è stato citato più volte in quest’aula, oggi sente il dovere di dire tutta la verità.
Prima che salga sulla pedana l'altro testimone, il tenente degli Alpini Carlo Colombo, nasce un secondo incidente. L'avv. Taddei presenta al tribunale una foto nella quale è ritratto il corpo di un bersagliere spaventosamente mutilato dai soldati russi all'atto della cattura. È il corpo della medaglia d’oro alla memoria Guido Cassinelli il quale rimase abbarbicato alla sua mitragliatrice fino a che, sparato l'ultimo colpo, i russi non riuscirono a farlo prigioniero ancora al suo posto di combattimento.
Avv. Sotgiu: — Mi oppongo che la fotografia venga allegata agli atti. Essa esula dalla materia del processo.
L'avv. Taddei insiste. Il Presidente consente che la fotografia, esibita dalla difesa, circoli nell’aula per sola visione.
Avv. Taddei: — Però i criminali di guerra erano i bersaglieri...
Chiuso l'incidente il ten. Colombo può dire che nel campo di Susdal incontrò la signora Torre che fungeva da interprete. Le chiese di aiutarlo a far pervenire una sua lettera alla famiglia, ma la Torre, sorridendo, rispose che la posta era un «dono che bisognava saper contraccambiare».
Anche il ten. Colombo parla a lungo del cap. Magnani ribadendo quanto già è stato detto da tutti gli altri testi.
Aggiunge solo che il capitano gli disse: «Se alla fine della guerra io non tornerò più in Italia, lei può attribuire pubblicamente la colpa di ciò al signor D'Onofrio...».
Ultimo teste della difesa il tenente dei Carabinieri Francesco Mantineo, anch’egli internato nel campo di Susdal, dove conobbe quasi tutti gli ufficiali che non hanno fatto ritorno. Cita, fra gli altri, il gen. Battisti, il magg. Massa, il magg. Zigiotti, Don Brevi, il cap. Magnani. Questi gli raccontò degli snervanti interrogatori ai quali era stato sottoposto dal D'Onofrio che il Magnani stesso chiamava «il Giuda». Il teste dichiara che il Magnani gli disse allora: «Se avrò la fortuna di ritornare in Patria, cosa che mi sembra difficile, ne racconterò delle belle sul conto di questo signore».
L'udienza è finita. Il sen. D'Onofrio raccoglie con cura le proprie cartelle, gli appunti che prende continuamente. Un vago sorriso increspa le sue labbra mentre si allontana dall’aula. Da lunedì la valanga delle accuse si arresterà e alle sue orecchie suoneranno soltanto parole amiche: per una settimana.