27 maggio 1949 - Man mano che i giorni passano e i racconti dei reduci si ripetono, uguali, tragicamente uguali nella rievocazione dell’odissea, l'atmosfera del dramma in quest’aula di tribunale si fa più cupa, terribile. Certamente nessuno dì quelli che si vanno avvicendando sulla poltrona dei testimoni, o di quelli che si affollano nello spazio riservato al pubblico avrebbe mai pensato, ai tempi della prigionia, che in un’aula di tribunale, davanti alla maestà della giustizia, avrebbe incontrato i superstiti della tragedia.
Dalla deposizione del sottotenente di fanteria Sergio Fiaschi, si apprende come egli fu portato in un «campo-scuola» a 300 chilometri dall’Afganistan.
Presidente: — In che cosa consisteva questa scuola?
Fiaschi: — Ufficialmente doveva avere un carattere informativo, ma ben presto ebbi modo di sapere in che cosa realmente consistesse. Dopo tre mesi di permanenza in quel campo fui chiamato dal fuoruscito Robotti il quale mi disse che la scuola mi tacciava di «fascista». E per quella volta la cosa finì lì. Ma poi fui chiamato una seconda volta insieme ad altri che si trovavano nelle mie stesse condizioni per sentirmi ripetere questa accusa con la aggiunta che il mio atteggiamento e quello dei miei colleghi meritavano una severa punizione.
Vissi durante tutti e tre gli anni della prigionia nel continuo terrore di essere gettato in un carcere. D'Onofrio faceva soltanto brevi apparizioni nella scuola il giovedì. Gli insegnanti erano i fuorusciti Robotti e Reghenti oltre il maggiore russo Orloff.
Avv. Mastino Del Rio: — Quale trattamento era riservato ai più zelanti frequentatori di questa scuola?
Fiaschi: — A coloro che dimostravano maggiore attività nella frequenza della scuola veniva riservato un trattamento migliore. Essi erano chiamati «assistenti», non erano obbligati a lavorare e mangiavano meglio degli altri.
Un cappuccino, dalla lunga barba ben curata, è il secondo teste della giornata chiamato a deporre: padre Giuseppe Fiora, cappellano dell'8° regg. Alpini, fatto prigioniero nel gennaio 1943.
P. Fiora: — Sento il bisogno di premettere che al campo di Krinovaia, dove venni portato prima di essere trasferito ad Oranki, la fame dei prigionieri era tanta da dar luogo a casi di cannibalismo. Un giorno si presentò a me un soldato italiano il quale, in una gavetta, mi offrì di mangiare con lui il cuore di un commilitone morto: «Padre, vuol mangiare?» mi disse. Mi prodigai con gli altri cappellani prigionieri, anche per invito dei fuorusciti e dei russi, perché quei gravissimi fatti avessero a cessare. Ripetemmo ai prigionieri le assicurazioni fatteci dai fuorusciti di future migliorie. Ma nessun miglioramento si verificò mai, né allora né dopo. La promessa non fu mantenuta.
Durante il viaggio di trasferimento da Krinovaia ad Oranki fu data come razione di viveri ai prigionieri soltanto un pezzo di pane secco e pesce salato. Niente acqua. E quando gli uomini ne chiedevano, le guardie russe rispondevano: «Perché siete venuti a combattere contro di noi? Adesso la pagate!».
Appena arrivati ad Oranki tutti furono infettati di tifo petecchiale. Nessuna assistenza sanitaria fu data ai malati dai sovietici: l'unico a prendersi cura di loro fu il tenente medico italiano Reginato il quale non ha fatto più ritorno dalla Russia. Oltre al tifo altre epidemie scoppiarono nel campo. Fra esse la più grave fu la dissenteria. L'indice di mortalità raggiunse il 90 e anche il 95 per cento dei prigionieri. I malati giacevano su un tavolaccio e a noi cappellani non fu mai consentilo esercitare le nostre funzioni. Per essere ammessi nel lazzaretto dovemmo fare domanda di infermieri. Io però mi ammalai il giorno prima di essere assunto. Appena guarito fui assegnato ad un duro lavoro, quello di segare alberi e trasportarli per dei chilometri.
Ad Oranki, per volere di tutti gli internati, la sera si pregava ad alta voce. Fra le altre recitavamo la preghiera «Pro Rege». Un giorno però io e l'altro cappellano, don Brevi, fummo chiamati dal commissario politico del campo, Fiammenghi, il quale ci proibì di recitare quella preghiera perché il Re era «un venduto allo straniero» e il «capo dei reazionari». Naturalmente abolimmo questa preghiera per il Re.
Questo avveniva verso la fine di maggio del 1943. Dopo qualche mese Fiammenghi ci chiamò nuovamente e ci disse che dovevamo smettere di recitare preghiere perché in Russia non erano ammessi atti di culto esterno. I prigionieri, se lo volevano, potevano pregare privatamente. Chi non si fosse attenuto a questi ordini precisi sarebbe stato punito con il carcere.
Presidente: — Lei ebbe occasione di parlare con D'Onofrio?
P. Fiora: — Personalmente no. Assistetti, però, ad una sua conferenza nel campo di Oranki.
Presidente: — Che cosa disse il querelante?
P. Fiora: — Non lo so perché poco dopo che aveva cominciato a parlare mi addormentai. Seppi, però, dagli ufficiali, al mio risveglio, che l'impressione riportata fu tutt’altro che buona.
Avv. Taddei: — L'intervento dei fuorusciti italiani migliorò le condizioni dei prigionieri?
P. Fiora: — Lei è matto. L'unico nostro sollievo era la fratellanza.
Presidente: — Lei può andare.
P. Fiora: — No, Non ancora. Voglio aggiungere che quella nostra fratellanza fu distrutta proprio dai fuorusciti. Si deve esclusivamente a loro se si verificarono delle delazioni, delle vendette, dei rancori personali. E non basta. I fuorusciti cercarono in ogni modo di intralciare la nostra opera di umanità, tanto che riuscivamo ad ottenere più rivolgendoci ai russi che ai nostri connazionali. Cito un caso: per ben due volte chiesi al commissario politico Ossola il permesso di visitare un ufficiale che giaceva gravemente ammalato. Non ebbi mai risposta: neppure un rifiuto. Mi rivolsi allora al comandante russo del campo e nel giro di pochissime ore ottenni il permesso richiesto. Il senso di diffidenza che i fuorusciti erano riusciti a far serpeggiare nella nostra compattezza era tale che tra noi si diceva: siamo prigionieri degli stessi prigionieri italiani.
Dalla deposizione di un altro testimone, il sottotenente di fanteria Luigi Esposito, nulla emerge che non sia già a conoscenza del tribunale. Egli fu portato al campo di Tamboff dove era ad attendere i prigionieri in arrivo un gruppo di fuorusciti italiani. La signora Torre che era nel gruppo accolse i nuovi arrivati con queste parole: «Venite, venite, soldatini. Finalmente siamo riusciti a liberarvi dalla tirannia dei vostri ufficiali».
L'udienza ormai sarebbe finita, ma l'avv. Taddei fa istanza perché venga richiesta alla Direzione Generale degli Affari Politici del Ministero degli Esteri la lista ufficiale dei militari italiani segnalati ufficialmente dalla Russia come criminali di guerra, istanza che il tribunale accoglie dopo una breve permanenza in camera di consiglio.