12 luglio 1949. - La parola è al primo avvocato della difesa dei reduci, l'avv. Rinaldo Taddei.
Avv. Taddei: — Esattamente tre anni or sono, l'1l luglio 1946, una piccola tradotta si avvicinava al confine di Tarvisio portando alcuni uomini, ultimi resti dell'VIIIa Armata. Questi ragazzi tornavano a vedere dopo sei anni di lontananza, per la prima volta, il tricolore sventolare sul territorio della Patria. A distanza di tre anni precisi da quel giorno, un magistrato chiede l'assoluzione di un gruppo di quei reduci, la cui colpa era stata quella di aver sollevato un velo sui patimenti morali e materiali da loro sofferti e di aver fatto conoscere la verità agli italiani.
Nella voce dell’avv. Taddei vibrava tutta la passione dell’uomo che ha vissuto quelle stesse sofferenze che hanno patito i suoi patrocinati, l’esposizione dei fatti, gli attacchi polemici erano illuminati dal ricordo delle tragiche giornate anche da lui trascorse sul fronte russo. Una arringa ampia, piena di slancio e di calore che ha commosso il pubblico di reduci che affollava l'aula ed ha destato gli unanimi consensi.
Il difensore ha iniziato con un ampio giro d’orizzonte retrospettivo, analizzando le condizioni storiche e geografiche delle terre che circondavano la Russia al principio della guerra, poi è passato con risolutezza ad esaminare le affermazioni del sen. D'Onofrio demolendole una ad una, ricercandone il lato falso, contestandole con abile dialettica.
L'avv. Taddei polemizzando con il querelante il quale dichiarò di non sapere quale fosse il numero dei prigionieri italiani in Russia, ha rilevalo come l'accusatore, simulando questa sua ignoranza, continui in Italia l'opera di agente sovietico che svolgeva allora quando girava per i campi di concentramento.
Avv. Taddei: — D'Onofrio, il quale era direttore de «L'Alba», ha detto di non credere al numero di 80 mila prigionieri italiani pubblicato dal 1° numero di quello stesso settimanale. Ha detto di non crederci perché quella cifra serviva a certa propaganda... Ma... a quale propaganda?... Alla tua Edoardo D'Onofrio!
Fare la contabilità di questa nostra carne è la cosa più oscena che tu abbia fatto da quando ti sei seduto in quest’aula.
Il difensore dei reduci, ha poi tratteggiato quale fosse il dolore e la tragedia dei prigionieri. Ha dimostrato quali fossero le miserrime condizioni in cui essi vivevano. Ha narrato le crudeltà dei sovietici, l'impossibilità di avere o di far giungere notizie alle famiglie lontane.
Avv. Taddei (rivolto a D'Onofrio): — Tu non sai che cosa voglia dire essere depredati delle scarpe e essere costretti a camminare a piedi scalzi sulla neve con 40 gradi sotto zero. Avremmo voluto che le donne russe che ci portavano un po’ di acqua non fossero scacciate, che quei poveri ragazzi che riuscivano a fare un buco nel soffitto del carro bestiame per raccogliere una manciata di neve e dissetarsi non fossero freddati con un colpo alla schiena. E neanche dai morti ci liberavano perché i vagoni venivano aperti ogni tre giorni e la sentinella che si affacciava nell'interno si limitava a chiedere: «quanti morti, qui? Non è vero che il tifo petecchiale fosse portato dai prigionieri stessi nei campi. E lo dimostra il fatto che gli ultimi prigionieri furono catturati nel gennaio e l’epidemia scoppiò dopo tre mesi, mentre è noto a tutti che il periodo di incubazione del tifo non supera i quindici giorni.
Avv. Taddei: — Noi ci inchiniamo di fronte alla bandiera del popolo russo che si batté per la difesa della sua patria, ma questi episodi di inciviltà non fanno onore alla nazione che voi difendete.
D'Onofrio, il quale ha assistito apparentemente impassibile, al torrente d’accuse che gli si rovescia addosso, ha cominciato a dar segni di impazienza e poi all'improvviso si è alzato di scatto ed ha abbandonato l'aula mentre l'avv. Taddei metteva in evidenza la contemporaneità della comparsa dei fuorusciti nei campi con la qualifica di commissari politici e dell’emanazione dell'ordine di Stalin di far sì che il numero dei morti fra i prigionieri non fosse più tanto alto. In alto loco, dice l'avv. Taddei, si doveva essere venuti alla conclusione che era più utile restituire all'Italia i miseri resti della sua Armata in veste di propagandisti comunisti.
Avv. Taddei: — Ed ecco spiegata la propaganda, i corsi di antifascismo. Voi siete stati profeti, avete visto giusto, ma dal punto di vista giuridico il vostro è un reato e molto vi sarebbe ancora da dire su questo argomento se l’art. 16 del Trattato di pace, non vi avesse assolto dall’aver tramato contro la Patria prima della dichiarazione di guerra alla Germania. Certo, la Patria potrà risollevarsi dalle rovine materiali, ma non da quelle spirituali fintanto che esiste questo articolo.
D'Onofrio ha cercato di dimostrare che la sua attività in quel triste periodo ebbe a risolversi in un’opera umanitaria, di assistenza morale; ha voluto ricordare che, rientrato in Italia, si fece premura di correre ad informare le famiglie dei prigionieri della salute dei loro cari. Ma si è dimenticato qualche cosa. S’è dimenticato di dire al Tribunale che egli si limitò a portare tali notizie soltanto alle famiglie dei prigionieri che frequentavano i corsi di antifascismo.
D'Onofrio ha detto che attraverso Radio Mosca tutti i prigionieri potevano inviare saluti e notizie ai propri familiari, ma non ha spiegato come mai, ad esempio, il signor Pietro De Francisci, di Palermo, poté apprendere il 19 febbraio 1944, appunto da un messaggio radio, che suo figlio era in ottima salute, suo figlio che era morto invece in un campo di concentramento nel marzo del 1943.
Avv. Taddei: — Ora noi non contestiamo al sen. D'Onofrio il diritto di fare la propaganda delle proprie dee. Quello che noi gli neghiamo è il diritto di turbare la coscienza di un ufficiale, di costringerlo a violare un giuramento al quale si sente legato. Noi non riusciamo a comprendere perché D'Onofrio neghi oggi di aver fatto propaganda comunista e si quereli contro chi glielo ricorda. Se ne vergogna forse il sen. D'Onofrio?
Il difensore proseguendo nelle accuse, insiste nel rilevare di aver fatto il suo dovere di italiano fino in fondo, ma di non aver mai detto che l'esercito del suo Paese è stato sonoramente battuto da «un popolo di contadini e di operai», come ha detto D'Onofrio.
Avv. Taddei: — E allora di che cosa si lamenta? di che s'offende? Sappiamo tutti che il concetto comunista è che non si può essere antifascisti se non si è comunisti, sappiamo che il motto è: «chi non è con noi è contro di noi».
Avv. Paone (scattando): — Ma questo lo diceva Mussolini... Il tuo è un fenomeno di daltonismo mnemonico...
Avv. Taddei: — Lo diceva Mussolini, ma ora lo dite voi... (e poi rivolto all'avv. Mastino Del Rio): e perciò tu, caro Mastino, che hai sofferto in carcere, tu che hai sentito il bastone dei tedeschi, tu no, tu non sei un antifascista...
Il difensore dei reduci ha poi esaminate ad una ad una le deposizioni dei testi indotti dalla parte civile, osservando che di essi uno soltanto, il capomanipolo Danilo Ferretti, conobbe D'Onofrio. La maggior parte degli altri sono dei soldati e si sa che i soldati vennero internati in campi di concentramento separati da quelli degli ufficiali, mentre qui si fa il processo alle violenze morali che D'Onofrio commise sugli ufficiali. L'arringa dell’avv. Taddei ha vivamente commosso il pubblico che affolla l'aula soprattutto quando aveva detto all'inizio:
Avv. Taddei: — Questi ragazzi che avevano superato i limiti della resistenza umana, tornando in Patria erano con il cuore di ghiaccio. Quando voi, Pubblico Ministero, avete chiesto la loro assoluzione, non il loro plauso, ma le loro lacrime, accolsero le vostre parole».