17 giugno 1949.
Pugliese: — Una commissione della Croce Rossa Internazionale venuta a visitare il Campo di Oranki nell’aprile del 1943, fuggì inorridita per le condizioni in cui versavano i prigionieri.
Nel lazzaretto di Oranki, 400 ufficiali, erano gettati su letti di legno a due posti (i cosiddetti «castelli»), senza pagliericcio, senza lenzuola, quasi completamente nudi. C'erano nel gruppo 15 medici italiani, ma date le loro disperate condizioni fisiche non erano in grado di prestare la loro opera di sanitari. Tutti i malati erano assistiti da un solo medico italiano, aiutate da Don Franzoni in qualità di infermiere. Non vi erano reparti separati per le diverse malattie epidemiche cosicché affetti di tifo petecchiale e di difterite, di dissenteria e di tifo esantematico giacevano gli uni accanto agli altri. E per tutti c'era una sola medicina: una soluzione di permanganato di potassio che veniva spalmata con batuffoli di ovatta sui corpi di coloro che avevano la scabbia e bevuta, invece, da chi aveva la dissenteria o il tifo o un’altra infezione qualunque. La maggior parte dei degenti, poi, soffriva anche per delle piaghe che il continuo e lungo contatto del legno dei tavolacci con la loro magrezza aveva prodotto sulla schiena e specialmente nella regione sacrale. Le condizioni sanitarie e igieniche non migliorarono neppure quando scoppiò l'epidemia di tifo esantematico e l'altra più grave di «distrofia» (cosi i russi chiamavano una malattia che altra origine non aveva che la fame). La mortalità raggiunse in quel periodo una percentuale spaventosa che toccò punte dell’80 e del 90 per cento.
Conobbi il commissario Fiammenghi dopo la guarigione. Egli usava invitare i prigionieri a manifestare liberamente le loro idee, ma se queste non collimavano con le sue andava su tutte le furie, bestemmiava e minacciava.
Pugliese: — Quanto alla corrispondenza, vennero sì distribuite delle cartoline in franchigia per scrivere alla famiglia ma non arrivarono mai a destinazione perché le trovammo strappate in mezzo all'immondizia.
Circa l'attività del D’Onofrio il Pugliese non ha fatto che riconfermare le deposizioni dei colleghi che lo avevano preceduto nella testimonianza.
Prima che il teste venga congedato l'avv. Taddei esibisce la copia del «Risorgimento Liberale» del 1 aprile 1948 in cui è pubblicata una lettera di D'Onofrio in risposta ad un articolo scritto dal Pugliese. Il teste allora spiega al Tribunale che a sua volta rispose al sen. D'Onofrio per dimostrare quanto false fossero le cose che egli aveva scritto nei suoi riguardi e come nella polemica si inserirono successivamente altri reduci.
All'inizio dell’udienza erano stati sentiti ancora due testi d’accusa: Franco Daniello, ex marinaio, e Cadorna Gardini, geniere. Il Daniello ebbe «la fortuna» di conoscere il commissario Fiammenghi «un vero padre», alla scuola di antifascismo. Terminato questo primo corso, il teste fu inviato ad una scuola di perfezionamento nei pressi di Mosca dove conobbe il fuoruscito Bobotti «un vero amico» il quale lo sgridava perché lui voleva studiare anche la domenica e ciò poteva nuocere alla sua salute.
Il teste ha detto anche di essere stato in un primo tempo prigioniero dei tedeschi che lo catturarono a Lero insieme a tutto il presidio, dopo l'8 settembre 1943, e di esser stato, successivamente, liberato dai russi nel luglio del 1944 a Barissoff.
Avv. Sotgiu: — Poiché il teste fu prigioniero e dei tedeschi e dei russi può dire da chi ricevette trattamento migliore?
Daniello: — Posso solo dichiarare che, allorché caddi in mano russa, mi sembrò di essere tornato alla vita. Quando dovemmo lasciare i campi per fare ritorno in Patria, molti di noi piangevano.
Più o meno le stesse cose ha ripetuto il Gardini, chiamato subito dopo. Conobbe il querelante alla scuola di antifascismo e ancora oggi darebbe la vita per D'Onofrio e per tutti gli altri fuorusciti italiani.
Prima di rinviare a domani il seguito dell’esame testimoniale con gli ultimi quattro lesti a discarico, è stato sentito ancora una volta il cappellano Don Franzoni il quale vuole fare una precisazione circa una cena che ebbe luogo, dopo il rientro dalla prigionia, a casa sua in San Giovanni in Persiceto, e alla quale intervenne anche il commissario Rizzoli.
La circostanza, così come è stata riferita da uno dei testi della l'arte Civile, risulta deformata.
Don Franzoni: — Non mi consta che il Rizzoli, pur esplicando in Russia mansioni di commissario politico, abbia tramato ai miei danni. Questa mia stessa impressione la ebbero gli ufficiali che parteciparono alla cena, da me offerta. Non fui io, però, ad invitare il Rizzoli, bensì gli ufficiali miei amici. Ed io consentii di buon grado ad averlo con noi.
A tavola, mentre si mangiava, invitammo il Rizzoli ad esprimere liberamente il suo pensiero sul trattamento che i russi e i commissari italiani avevano fatto ai nostri prigionieri e gli chiedemmo pure come spiegava l’ecatombe dei nostri compagni e la crudeltà con cui eravamo stati trattati. Il Rizzoli rispose vagamente che i russi a quei tempi avevano da pensare a ben altre cose, che la guerra incalzava, che i medicinali non bastavano neppure ai russi e quindi non potevano davvero darli ai prigionieri.
Qualcuno chiese al Rizzoli un parere personale nei confronti di D'Onofrio, e, lui, dopo un attimo di perplessità, rispose che lo riteneva un uomo intelligente, senza specificare di più. Gli chiedemmo ancora cosa pensasse di Roncato, e Rizzoli rispose che quello era un disgraziato e un delinquente.